Per un creativo a tutto tondo, essere chiuso in una categoria di riferimento suona come una limitazione umana e sociale. Mettere in discussione le regole accettate collettivamente rappresenta un atto di coraggio che racconta una personalità nel suo insieme, non solo nel suo lavoro. Prima di diventare il Massimo Osti nominato nel 1999 dalla rivista Arena Homme+ come 'il designer menswear più influente negli anni '90', il creativo italiano ha dovuto costruire la sua identità, adottando un atteggiamento di rottura in costante evoluzione.
Il lavoro e la vita di Massimo rappresentavano una sfera unica, animata da un profondo desiderio nel mettere tutto in discussione e riequilibrarsi secondo le sue visioni. Non amava i riflettori e mettersi al centro dell'attenzione, tutt'altro. Era spesso riservato, silenzioso e osservatore incuriosito di ciò che accadeva attorno a sè. In fondo, l'abbigliamento e tutti i suoi progetti creativi erano soltanto il riflesso della sua personalità amante della bellezza e della vita nei suoi valori più essenziali.
'In Massimo l’amicizia aveva un valore totale. Era una dimensione del suo essere al mondo. Aveva una grazia tale nell’amicizia che non faceva sentire gelosi gli amici uno dell’altro come succede spesso a causa della debolezza dell’umano', ha ricordato il filosofo Stefano Bonaga. Difatti, la genialità di Massimo Osti risiedeva nel suo essere costantemente aperto a farsi contaminare e stringere relazioni con persone distanti dal suo mondo professionale, ma molto vicini in termini culturali e sociali. Tra questi, comparivano Lucio Dalla, Andrea Pazienza, Gabriele Salvatores, Filippo Scozzari, Stefano Benni, Andrea Renzini, Tanino Liberatore, Luca Carboni, e tanti altri ancora.
Massimo non arrivava da una formazione accademica nella moda, ma da quella pubblicitaria dove l'impronta grafico-comunicativa delinea il messaggio che si vuole lanciare. E lui lo interpretava nella maniera più espressiva ed individuale possibile, focalizzandosi su prodotti che si rivolgessero ad un pubblico ampio, colto, e sofisticato.
Massimo amava confrontarsi e scoprire un nuovo tassello da incorporare nelle sue invenzioni d'avanguardia. Ogni suo progetto rappresentava un contenitore di tutte le idee ed influenze che raccoglieva, a cui dedicava maniacale attenzione ad ogni dettaglio. Perchè per lui niente era realizzato per caso. Tutto aveva una sua funzionalità d'uso per intersecarsi con il suo studio approfondito di forme, tessuti e tecnologie produttive.
La discrezione di Massimo come uomo lo portò a rifiutare categoricamente la centralità frenetica milanese, un sistema d’élite sorretto spesso da relazioni superficiali, patinate e create solo per tornaconto personale. Non amava le sfilate perchè rappresentavano una visione parziale del prodotto, distaccata e quasi 'inumana'. Al contrario di ciò che il settore dell’abbigliamento sembrava imporgli, cioè un approccio da imprenditore e designer cinico, la vera sfida per Massimo era porre la sua creatività al servizio di più gente possibile. Sopratutto, amava immergersi a stretto contatto con realtà e contesti urbani 'dimenticati' con progetti sociali.